Il quadro, che prima era esposto all’interno della chiesa, è stato per lungo tempo conservato e quasi dimenticato nell’archivio dell’Abbazia di Valvisciolo e solo dal 2003 è stato poi musealizzato all’interno del Museo Stanislao White.
Si tratta di una opera di modeste dimensioni, 122 cm x 96 cm, realizzata ad olio su tela dal Pomarancio nel 1589 circa.
L’artista crea una vera e propria rappresentazione drammatica e teatrale evocando in termini formalmente semplici e per questo molto efficaci la tragicità dell’evento, della morte del Cristo. Nell’impianto compositivo ogni personaggio ha un suo ruolo prestabilito nella partecipazione al compianto e al momento della sepoltura. Quindi, ciascuno esprime un diverso grado di partecipazione emotiva.
La composizione è dominata dalla figura di Cristo attorniata da sei personaggi. Ognuno dei quali, come ho già detto, instaura un rapporto emozionale diverso con l’evento, con il proprio dolore per il sacrificio del Cristo.
Esaminiamo la figura di Maria che scruta disperatamente il volto del figlio alla ricerca di un segno di vita. Questo muto, ma espressivo dialogo di una madre si concretizza attraverso lo sguardo .Il suo straziante dolore è contenuto e sommessamente manifestato dalla vicinanza dei volti e attraverso il capo adagiato contro
la testa del figlio.Siamo di fronte all’ultimo umano, silenzioso ma disperato abbraccio di una madre che ama il proprio figlio.E’, questo, un elemento che costituisce uno dei fulcri espressivi della scena.Nella fissità e nell’intensità dello sguardo possiamo leggere la consapevolezza di Maria alla necessità del sacrificio e al tempo stesso il presagio della imminente risurrezione del figlio.
Molto intensa anche l’espressione addolorata e straziante di dolore della Maddalena che rivolge il proprio sguardo al cielo.Con le mani sorregge un panno bianco.Di particolare interesse è l’apertura della mano destra che attraverso l’indice e il medio divaricati allude ad una simbologia più complessa alludendo alla duplice natura della figura di Cristo sia umana che divina.
Giuseppe d’Arimatea, che permise la sepoltura di Cristo, si trova affianco alla Maddalena ed è il primo personaggio del lato destro. Sostiene con forza, prendendolo da tergo, il corpo esanime del Cristo, in modo da fargli assumere una posizione seduta.
Come ho già specificato, nel mio primo libro L’eremo di San Francesco Arte e Storia, ritengo che sul braccio destro di Giuseppe d’Arimatea vi sia dipinto a caratteri rossi il monogramma di Antonio Circignani.
Infatti, secondo le mie intuizioni quel segno che sembra quasi un tatuaggio racchiude,invece, le iniziali dell’artista : vi è una “ A “ grande con dentro una “ c “ più piccola. Ma tralasciamo per un momento il discorso sulla paternità dell’opera che riprenderemo più avanti. L’artista come fonte per realizzare la composizione si è basato sui testi biblici in particolare ha fatto riferimento al Vangelo secondo Giovanni (20,13) in cui si narra che :
<<Dopo questi fatti, Giuseppe D’Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodemo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto. Là dunque deposero Gesù, a motivo della Preparazione dei Giudei, poiché quel sepolcro era vicino.>> – Bibbia di Gerusalemme, edizione Dehoniane Bologna 1986, pag. 2313 ( 20,13 ).
Infatti, solo nel Vangelo di Giovanni si nomina anche Nicodemo che è posto dall’artista in atto di avvolgere il corpo di Cristo con un lenzuolo. Fu, infatti, Nicodemo che fornì gli aromi per ungere il corpo di Gesù. L’artista evidenzia nelle anatomie larghe e massicce il suo tipico linguaggio manierista ispirato al plasticismo michelangiolesco. Il senso del movimento nella composizione viene dato dalla figura di Giovanni Evangelista che sembra arrivare affannato e disperato. E’ coperto da un vibrante manto di colore rosso, un colore che allude alla passione del Signore. Si batte il petto con la mano destra e il suo sguardo è pieno di tenerezza verso colei che le è stata affidata da Cristo. Alle spalle del gruppo di figure si intravede l’apertura scavata nella roccia. Nella profondità della quale vi è probabilmente il sepolcro. Mentre in lontananza si delinea il profilo della città di Gerusalemme. A sinistra si erge il Golgota sul quale sono piantate le croci. Si noti però che la parte superiore, dove appunto vi sono le croci, risulta tagliata e che con molta probabilità la tela doveva proseguire in altezza.
In basso a destra vi è la cesta contenente gli strumenti del martirio. Nella cesta troviamo gli oggetti che sono serviti a torturare il Cristo sulla croce . Tra cui si notano: il chiodo, un martello, una tenaglia, la corona di spine e un panno bianco. Di estremo interesse ed estranei alla composizione sono i due uomini che si trovano all’estremità del dipinto. Potrebbero essere, lo stesso Niccolò Circignani e il figlio Antonio. Per quanto riguarda queste due figure mi debbo ricollegare al discorso sull’autoproiezione contestuale di Victor I. Stoichita[1]. Tema che ho già dettagliatamente spiegato in un’altra mia pubblicazione e che qui sintetizzo.In questo caso specifico, però, non siamo di fronte al caso “dell’autore mascherato“, come nell’affresco dell’Ultima Cena dell’eremo di San Francesco, ma di fronte ad uno strettamente collegato l’autoritratto “da visitatore”. Secondo Stoichita questo segna un passo avanti sulla via della coscienza dell’inserimento autoriale. Quindi, l’artista non prende a prestito né i vestiti né la maschera di uno dei personaggi ma si presenta come un corpo estraneo alla storia al cui interno penetra per effrazione. In particolare in questa composizione
vi sono due artisti che penetrano per effrazione e questo contribuisce notevolmente a rafforzare l’ipotesi che il quadro sia stato eseguito da entrambi i pittori. Il vecchio Circignani che ha probabilmente eseguito alcune parti, quelle più impegnative, del dipinto e il figlio Antonio che ha lasciato tre indizi ai vari osservatori dell’opera: in primis, quello più evidente è il suo autoritratto e quello del padre; poi il gesto che fa con il braccio sinistro come ad indicarne la paternità.
La differenza tra lo spazio della storia e lo spazio occupato dall’autore è ancora più marcata in quanto l’autore mostra la sua opera proprio indicando con il dito; in fine il suo monogramma (“A”,“C”) lasciato sul braccio di Giuseppe d’Arimatea. Ricordo che Antonio Circignani nacque a Città della Pieve nel 1568c. e morì a Roma nel 1629. Se facciamo un po’ di calcoli possiamo dire che nel 1589 (data della presenza documentata dei Circignani a Valvisciolo) Antonio aveva circa 21 anni. Mentre il padre, di cui la data di nascita è incerta tra il 1524-1530, sempre nel 1589 aveva tra i 59-65 anni.
Vorrei porre l’accento su una analogia stilistica molto interessante tra la figura del Cristo della Deposizione con la figura dei progenitori soprattutto di Eva nella Pala dell’Immacolata concezione di Volterra. Se osserviamo le gambe di Eva possiamo notare che le cosce, i ginocchi, i polpacci riprendono quelli del Cristo, messo a confronto, in modo molto puntuale. Anche se nella figura di Eva la gamba sinistra non è piegata ma leggermente flessa.
Inoltre, ritornando al ritratto dei due artisti, per quanto riguarda l’immagine di Niccolò Circignani abbiamo anche come possibile confronto il suo autoritratto nascosto tra la decorazione della volta della cappella di San Lorenzo, sempre nella stessa abbazia di Valvisciolo e scoperto dalla scrivente.
[1] Victor I Stoichita, L’invenzione del quadro. Il Saggiatore, 2004, p.205.
By Sonia Testa
Per approfondimenti:
Sonia Testa, Abbazia di Valvisciolo, Vallis lusciniae
Sonia Testa, La cappella di San Lorenzo, nuove scoperte